Cassazione: sede di lavoro in caso di assistenza a disabile

La Sentenza 26343/2023 della Cassazione Civile Sezione Lavoro, ha stabilito che il diritto del lavoratore che assiste un disabile in situazione di gravità di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio deve essere interpretato nel senso che tale diritto può essere esercitato, al ricorrere delle condizioni di legge, oltre che al momento dell’assunzione, anche nel corso del rapporto di lavoro.

Tale interpretazione è desumibile sia dal tenore letterale della norma che dalla funzione solidaristica della disciplina posta a tutela e a garanzia dei diritti del soggetto portatore di handicap.

Nello specifico, il diritto non si configura come assoluto e illimitato, in quanto l’inciso “ove possibile” (contenuto nell’articolo 33, comma 5, della Legge n. 104/1992) prevede un adeguato bilanciamento degli interessi in conflitto.

Whistleblowing: al via anche le aziende con 50 dipendenti

Le aziende che hanno impiegato nell’ultimo anno una media di lavoratori subordinati tra i 50 e i 249, devono conformarsi, entro il 17 dicembre, agli obblighi in materia di whistleblowing. La normativa in materia è già operativa dallo scorso 15 luglio per le aziende che superano il limite sopra menzionato.

Ricordiamo che L’istituto del whistleblowing è uno strumento giuridico finalizzato alla tutela dei lavoratori che segnalano illeciti o attività fraudolente svolte all’interno della struttura di appartenenza ai soggetti incaricati (es. ANAC o Autorità giudiziarie) e il D.Lgs. n. 24/2023 rafforza le regole esistenti, ampliandone la portata.

Il datore di lavoro, sentite le rappresentanze sindacali, attiva propri canali di segnalazione, che garantiscono, anche tramite il ricorso a strumenti di crittografia, la riservatezza dell’identità della persona segnalante, della persona coinvolta e della persona comunque menzionata nella segnalazione, nonché del contenuto della segnalazione e della relativa documentazione. Per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante, occorre attivare canali di segnalazione gestiti da personale dedicato e appositamente formato, eventualmente anche a soggetto esterno autonomo. Il trattamento dei dati personali e la documentazione relativa alle segnalazioni dovranno essere gestiti rispettando le regole e i principi contenuti nel GDPR.

Per approfondire il tema, riandiamo ai precedenti articoli pubblicati:

Whistleblowing: aziende ai blocchi di partenza

Segnalazioni whistleblowing: attiva la nuova piattaforma

Costo medio settore metalmeccanica industria: le nuove tabelle ministeriali

Il decreto direttoriale n. 60 del 2023 del Ministero del lavoro, definisce il valore aggiornato del costo medio orario del lavoro per il personale dipendente da imprese dell’industria metalmeccanica e della installazione di impianti, con decorrenza dal mese di ottobre 2023.

Il costo medio orario del lavoro – determinato annualmente – è indicato nelle tabelle allegate al decreto, distintamente per gli operai e per gli impiegati, in base ai livelli di appartenenza ed è suscettibile di oscillazioni in relazione a:
a) benefici (contributivi, fiscali o di altra natura) previsti da norme di legge di cui il datore di lavoro usufruisce;
b) specifici benefici e/o minori oneri derivanti dall’applicazione della contrattazione collettiva;
c) oneri derivanti da interventi relativi a infrastrutture, attrezzature, macchinari, e altre misure connesse
d) oneri derivanti dalla contrattazione aziendale;
e) oneri derivanti da documentata incidenza del superminimo individuale;
f) oneri collegati all’utilizzazione delle norme contrattuali sulla reperibilità;
g) oneri derivanti dall’effettuazione di lavori fuori sede od officina.
Le imprese di riferimento sono quelle rientranti nel campo di applicazione dell’accordo del 5 febbraio 2021 per il rinnovo del CCNL per l’industria metalmeccanica e della installazione di impianti stipulato tra Federmeccanica, Assistal, FIM-CISL, FIOM CGIL e UILM-UIL, con decorrenza dal 5 febbraio 2021 e in vigore fino al 30 giugno 2024.
Le tabelle:

Tribunale di Forlì: la mancata presa in servizio non è paragonabile alle dimissioni in prova

La sentenza del 31 marzo 2023 emessa dal Tribunale di Forlì tratta il caso della mancata presa di servizio (nei tempi concordati) da parte di un dirigente il quale – pur se l’assunzione era condizionata al positivo superamento di un periodo di prova – aveva anche firmato una clausola penale.

Poiché l’accordo sottoscritto tra le parti non era stato rispettato, la società ha ottenuto un decreto ingiuntivo da parte del Tribunale di Forlì, nel quale veniva intimato il pagamento di un importo (più spese e interessi) a titolo di indennità sostituiva del preavviso.

Il lavoratore si è opposto al provvedimento, sostenendo che il patto di prova – inteso come periodo durante il quale entrambe le parti possono recedere liberamente, senza nessun indennizzo di sorta – renderebbe insussistente la pretesa della penale. In aggiunta, sostiene di aver agito secondo buona fede, avendo comunicato la decisione con congruo preavviso, senza sfruttare la previsione del patto di prova e senza, quindi, creare alcun danno.

La decisione dei Giudici si fonda sulla considerazione che la lettera di impegno a prendere servizio ha natura contrattuale, con differimento del termine, con conseguente validità dell’impegno assunto dal lavoratore.

Nello specifico, tale clausola – stabilendo il pagamento di una penale qualora l’obbligato non prenda servizio alla data stabilita – è chiara espressione della libera autonomia contrattuale. Pertanto, l’eccezione di incompatibilità con il patto di prova è da considerarsi infondata.

Le due previsioni, infatti, hanno oggetto e finalità differenti e tutelano due diversi momenti del rapporto:

La previsione dell’applicazione della penale riguarda un momento precedente l’effettiva presa di servizio e tutela l’interesse della società all’assunzione del ricorrente e al risarcimento forfetario del danno per l’eventuale inadempimento.

Mentre per poter usufruire della libera recedibilità prevista per il periodo di prova, è necessario che il rapporto si sia costituito e che le parti abbiano consentito e svolto l’esperimento che forma oggetto della prova; fatto che non si è mai concretizzato.

Ne consegue che la penale, contrattualmente stabilita, è dovuta dal ricorrente. La sua tempestiva comunicazione del ripensamento, essendo egli parte inadempiente, è irrilevante e pertanto, il credito certo, liquido ed esigibile, non suscettibile di riduzione.

Licenziamento per inidoneità fisica del lavoratore: l’onere della prova può essere assolto anche attraverso la deduzione dei comportamenti attivati al datore di lavoro

In caso di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, qualora ricorrano i presupposti di applicabilità del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3-bis (parità di trattamento delle persone con disabilità), è posto a circo del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso.

Questo il contenuto del dispositivo della sentenza della Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 15002/2023.

Nello specifico, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare, non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l’impossibilità di adibirlo a mansioni (eventualmente anche inferiori) compatibili con il suo stato di salute, ma anche l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli. Questo ultimo onere può essere assolto attraverso la dimostrazione di aver compiuto  atti o operazioni strumentali utili al c.d. “accomodamento ragionevole”; tali dimostrazioni – assumendo il rango di fatti secondari presuntivi – risulterebbero idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo ad ogni circostanza rilevante nel caso concreto.

Naspi anche in caso di dimissioni a seguito di trasferimento lontano dalla residenza

Le dimissioni rassegnate dal lavoratore a seguito del trasferimento in una sede di lavoro distante oltre 50 chilometri dalla propria residenza, o per il cui raggiungimento occorrano almeno 80 minuti con i mezzi pubblici, integrano le ipotesi di perdita involontaria dell’occupazione, cui consegue l’accesso alla Naspi.

In questo caso, per poter accedere alla Naspi non è necessario impugnare il trasferimento, né il riconoscimento in sede giudiziale dell’illegittimità dell’atto datoriale, poiché l’Inps non ha alcun titolo per subordinare il riconoscimento della prestazione all’accertamento della illegittimità del trasferimento in sede giudiziale, e neppure può essere ritenuto necessario che il lavoratore, unitamente alla domanda di accesso alla Naspi, produca un documento da cui si evince l’impugnazione del trasferimento medesimo.

Questo è quanto disposto dalla Sentenza n. 258/2023 della Corte d’Appello di Firenze, la quale ribadisce che il solo fatto dirimente per l’accesso alla Naspi è la perdita involontaria dell’occupazione.

Nello specifico, la fattispecie si verifica quando il lavoratore si trova a rassegnare le proprie dimissioni perché la distanza della nuova sede di lavoro rende «materialmente impossibile» o «estremamente disagevole» la prosecuzione del rapporto a causa dei costi economici e dei tempi di percorrenza associati agli spostamenti casa/lavoro. La perdita involontaria dell’occupazione non risulta necessariamente subordinata a un atto illegittimo del datore di lavoro, ma si determina anche in presenza di un evento in sé perfettamente valido, il quale tuttavia produca per il dipendente una condizione di sostanziale improseguibilità del rapporto.

I Giudici evidenziano che il trattamento Naspi viene garantito ai lavoratori in caso di licenziamento, a prescindere dalla circostanza che il recesso datoriale sia, o meno, un atto giuridicamente legittimo.

Anche nel caso in esame non si ravvisano motivi ragioni che possano imporre di subordinare il riconoscimento della Naspi alla illegittimità di un atto di trasferimento che, alla luce della distanza (50 Km) e dei tempi di viaggio (almeno 80 minuti), impedisce al lavoratore di proseguire il rapporto.

In questo caso la disoccupazione diventa una condizione involontaria e il disconoscimento della Naspi si pone in antitesi con la prassi dell’Istituto, che prevede il riconoscimento della prestazione in caso di rifiuto del trasferimento con risoluzione consensuale del rapporto.

La Corte osserva che le due fattispecie risultano identiche: tanto nel caso della risoluzione consensuale, quanto in quello delle dimissioni, il recesso discende dal medesimo atto datoriale di trasferimento.

Cassazioni: obbligo di procedura telematica per le dimissioni

Le dimissioni e le risoluzioni consensuali devono necessariamente passare, pena l’inefficacia degli atti, attraverso la procedura telematica prevista dal D.M. applicativo.

Fanno eccezione le procedure conciliative avanti agli organismi ex art. 410 e 411 cpc e quelle avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.

È questo il contenuto dell’Ordinanza n. 27331/2023della Corte di Cassazione, fondata sul principio della tipicità delle forme che supera il concetto delle dimissioni per “fatta concludentia”.

Presunzione di conoscenza: il licenziamento è valido se il datore di lavoro presenta le schede postali di monitoraggio della spedizione

I Giudici della Corte di Cassazione hanno affermato che la presunzione di conoscenza dell’atto recettizio può essere integrata dalla produzione – da parte del datore di lavoro – della documentazione in giudizio di tutte le attività svolte dall’agente postale incaricato della consegna per il tramite delle schede informative reperite dal sito internet di Poste Italiane (dalle quali si ricavavano tutte le fasi di spedizione della lettera di licenziamento, sino alla restituzione al mittente della missiva).

Nel caso in esame, una lavoratrice aveva contestato la validità del proprio licenziamento, sostenendo di non avere avuto modo di ricevere la comunicazione essendosi compiuto il periodo di avvenuta giacenza della raccomandata inviatale dal datore di lavoro.

La Corte ha confermato la Sentenza dei giudici di Appello, poiché durante il giudizio il datore di lavoro non si è limitato a produrre la sola ricevuta di invio della raccomandata, ma ha fornito copia puntuale dei documenti messi a disposizione dalle Poste Italiane contenenti il monitoraggio delle varie fasi di spedizione e consegna del documento, dalle quali si desumeva pacificamente la mancata consegnata della raccomandata, il suo successivo deposito presso l’ufficio postale e la sua restituzione al mittente all’esito della compiuta giacenza.

Per converso, la lavoratrice non è stata in grado di fornire la prova dell’impossibilità di avere notizia della comunicazione senza colpa, dato che la comunicazione di licenziamento era stata spedita all’indirizzo che la stessa aveva fornito al datore. In aggiunta, secondo i Giudici, non è possibile considerare sufficiente a vincere la presunzione, la mera affermazione di non avere mai rinvenuto all’interno della sua cassetta postale l’avviso di giacenza.

Ne consegue che, nel caso esaminato, sia possibile dimostrare l’operatività della presunzione di conoscenza di cui all’articolo 1335 del codice civile.

Organizzazione dei mezzi negli appalti labour intensive: la pronuncia del Tribunale di Roma

Secondo i Giudici del tribunale di Roma, il requisito dell’organizzazione dei mezzi necessari a eseguire i servizi appaltati può essere ottemperato anche attraverso la creazione di una chat tramite l’applicazione Whatsapp che l’appaltatore utilizza per impartire ai lavoratori le direttive sul lavoro da svolgere, distribuisce i turni, autorizza i permessi e ne coordina le attività interagendo con il preposto dell’impresa appaltante.

Questo il contenuto della sentenza del Tribunale di Roma che accoglie l’opposizione all’ordinanza ingiunzione emessa dall’Ispettorato territoriale del lavoro per somministrazione irregolare di manodopera.

Nela caso in esame (servizi di macelleria presso il punto vendita della committente), la società appaltatrice gestiva in autonomia i turni di lavoro dei dipendenti impiegati nelle attività appaltate, segnalando alla committente le assenze per ferie, permessi e malattia; ciò permetteva la copertura dei servizi nel punto vendita. L’organizzazione del lavoro era gestita dalla società appaltatrice proprio utilizzando il canale Whatsapp.

Il Tribunale conferma che tale canale comunicativo è uno strumento idoneo a consentire l’esercizio dei poteri di direzione e controllo sui lavoratori. Negli appalti c.d. leggeri, dove l’attività oggetto del contratto di appalto è costituita – in maniera preponderante – dal lavoro degli addetti, l’elemento dirimente è l’esercizio dei poteri di eterodirezione sui lavoratori; la chat su Whatsapp è pienamente idonea a soddisfare questa condizione.

Cassazione: retribuzione equa

Con la sentenza n. 27711/2023 la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di equa retribuzione.

Nello specifico, i Giudici affermano che – ai fini della individuazione della retribuzione equa e sufficiente prevista dall’articolo 36 della Costituzione – si deve, in prima istanza, verificare la stessa sulla base delle determinazioni previste dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali più rappresentative.

Nel caso in cui questo non fosse sufficiente, il Giudice deve valutare non solo i trattamenti previsti da altri contratti collettivi di settori affini, ma anche gli indicatori economici e statistici utilizzati per misurare la soglia di povertà quali, a titolo esemplificativo, l’indice ISTAT, i dati Uniemens per il calcolo del salario medio, il valore della NASPI, i trattamenti di integrazione salariale in presenza di sospensione dell’attività.