Licenziamento per inidoneità fisica del lavoratore: l’onere della prova può essere assolto anche attraverso la deduzione dei comportamenti attivati al datore di lavoro

In caso di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, qualora ricorrano i presupposti di applicabilità del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3-bis (parità di trattamento delle persone con disabilità), è posto a circo del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso.

Questo il contenuto del dispositivo della sentenza della Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 15002/2023.

Nello specifico, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare, non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l’impossibilità di adibirlo a mansioni (eventualmente anche inferiori) compatibili con il suo stato di salute, ma anche l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli. Questo ultimo onere può essere assolto attraverso la dimostrazione di aver compiuto  atti o operazioni strumentali utili al c.d. “accomodamento ragionevole”; tali dimostrazioni – assumendo il rango di fatti secondari presuntivi – risulterebbero idonei a indurre nel giudice il convincimento che il datore di lavoro abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata in grado di scongiurare il licenziamento, avuto riguardo ad ogni circostanza rilevante nel caso concreto.

Naspi anche in caso di dimissioni a seguito di trasferimento lontano dalla residenza

Le dimissioni rassegnate dal lavoratore a seguito del trasferimento in una sede di lavoro distante oltre 50 chilometri dalla propria residenza, o per il cui raggiungimento occorrano almeno 80 minuti con i mezzi pubblici, integrano le ipotesi di perdita involontaria dell’occupazione, cui consegue l’accesso alla Naspi.

In questo caso, per poter accedere alla Naspi non è necessario impugnare il trasferimento, né il riconoscimento in sede giudiziale dell’illegittimità dell’atto datoriale, poiché l’Inps non ha alcun titolo per subordinare il riconoscimento della prestazione all’accertamento della illegittimità del trasferimento in sede giudiziale, e neppure può essere ritenuto necessario che il lavoratore, unitamente alla domanda di accesso alla Naspi, produca un documento da cui si evince l’impugnazione del trasferimento medesimo.

Questo è quanto disposto dalla Sentenza n. 258/2023 della Corte d’Appello di Firenze, la quale ribadisce che il solo fatto dirimente per l’accesso alla Naspi è la perdita involontaria dell’occupazione.

Nello specifico, la fattispecie si verifica quando il lavoratore si trova a rassegnare le proprie dimissioni perché la distanza della nuova sede di lavoro rende «materialmente impossibile» o «estremamente disagevole» la prosecuzione del rapporto a causa dei costi economici e dei tempi di percorrenza associati agli spostamenti casa/lavoro. La perdita involontaria dell’occupazione non risulta necessariamente subordinata a un atto illegittimo del datore di lavoro, ma si determina anche in presenza di un evento in sé perfettamente valido, il quale tuttavia produca per il dipendente una condizione di sostanziale improseguibilità del rapporto.

I Giudici evidenziano che il trattamento Naspi viene garantito ai lavoratori in caso di licenziamento, a prescindere dalla circostanza che il recesso datoriale sia, o meno, un atto giuridicamente legittimo.

Anche nel caso in esame non si ravvisano motivi ragioni che possano imporre di subordinare il riconoscimento della Naspi alla illegittimità di un atto di trasferimento che, alla luce della distanza (50 Km) e dei tempi di viaggio (almeno 80 minuti), impedisce al lavoratore di proseguire il rapporto.

In questo caso la disoccupazione diventa una condizione involontaria e il disconoscimento della Naspi si pone in antitesi con la prassi dell’Istituto, che prevede il riconoscimento della prestazione in caso di rifiuto del trasferimento con risoluzione consensuale del rapporto.

La Corte osserva che le due fattispecie risultano identiche: tanto nel caso della risoluzione consensuale, quanto in quello delle dimissioni, il recesso discende dal medesimo atto datoriale di trasferimento.

Cassazioni: obbligo di procedura telematica per le dimissioni

Le dimissioni e le risoluzioni consensuali devono necessariamente passare, pena l’inefficacia degli atti, attraverso la procedura telematica prevista dal D.M. applicativo.

Fanno eccezione le procedure conciliative avanti agli organismi ex art. 410 e 411 cpc e quelle avanti ad un funzionario dell’Ispettorato territoriale del Lavoro.

È questo il contenuto dell’Ordinanza n. 27331/2023della Corte di Cassazione, fondata sul principio della tipicità delle forme che supera il concetto delle dimissioni per “fatta concludentia”.

Presunzione di conoscenza: il licenziamento è valido se il datore di lavoro presenta le schede postali di monitoraggio della spedizione

I Giudici della Corte di Cassazione hanno affermato che la presunzione di conoscenza dell’atto recettizio può essere integrata dalla produzione – da parte del datore di lavoro – della documentazione in giudizio di tutte le attività svolte dall’agente postale incaricato della consegna per il tramite delle schede informative reperite dal sito internet di Poste Italiane (dalle quali si ricavavano tutte le fasi di spedizione della lettera di licenziamento, sino alla restituzione al mittente della missiva).

Nel caso in esame, una lavoratrice aveva contestato la validità del proprio licenziamento, sostenendo di non avere avuto modo di ricevere la comunicazione essendosi compiuto il periodo di avvenuta giacenza della raccomandata inviatale dal datore di lavoro.

La Corte ha confermato la Sentenza dei giudici di Appello, poiché durante il giudizio il datore di lavoro non si è limitato a produrre la sola ricevuta di invio della raccomandata, ma ha fornito copia puntuale dei documenti messi a disposizione dalle Poste Italiane contenenti il monitoraggio delle varie fasi di spedizione e consegna del documento, dalle quali si desumeva pacificamente la mancata consegnata della raccomandata, il suo successivo deposito presso l’ufficio postale e la sua restituzione al mittente all’esito della compiuta giacenza.

Per converso, la lavoratrice non è stata in grado di fornire la prova dell’impossibilità di avere notizia della comunicazione senza colpa, dato che la comunicazione di licenziamento era stata spedita all’indirizzo che la stessa aveva fornito al datore. In aggiunta, secondo i Giudici, non è possibile considerare sufficiente a vincere la presunzione, la mera affermazione di non avere mai rinvenuto all’interno della sua cassetta postale l’avviso di giacenza.

Ne consegue che, nel caso esaminato, sia possibile dimostrare l’operatività della presunzione di conoscenza di cui all’articolo 1335 del codice civile.

Organizzazione dei mezzi negli appalti labour intensive: la pronuncia del Tribunale di Roma

Secondo i Giudici del tribunale di Roma, il requisito dell’organizzazione dei mezzi necessari a eseguire i servizi appaltati può essere ottemperato anche attraverso la creazione di una chat tramite l’applicazione Whatsapp che l’appaltatore utilizza per impartire ai lavoratori le direttive sul lavoro da svolgere, distribuisce i turni, autorizza i permessi e ne coordina le attività interagendo con il preposto dell’impresa appaltante.

Questo il contenuto della sentenza del Tribunale di Roma che accoglie l’opposizione all’ordinanza ingiunzione emessa dall’Ispettorato territoriale del lavoro per somministrazione irregolare di manodopera.

Nela caso in esame (servizi di macelleria presso il punto vendita della committente), la società appaltatrice gestiva in autonomia i turni di lavoro dei dipendenti impiegati nelle attività appaltate, segnalando alla committente le assenze per ferie, permessi e malattia; ciò permetteva la copertura dei servizi nel punto vendita. L’organizzazione del lavoro era gestita dalla società appaltatrice proprio utilizzando il canale Whatsapp.

Il Tribunale conferma che tale canale comunicativo è uno strumento idoneo a consentire l’esercizio dei poteri di direzione e controllo sui lavoratori. Negli appalti c.d. leggeri, dove l’attività oggetto del contratto di appalto è costituita – in maniera preponderante – dal lavoro degli addetti, l’elemento dirimente è l’esercizio dei poteri di eterodirezione sui lavoratori; la chat su Whatsapp è pienamente idonea a soddisfare questa condizione.

Cassazione: retribuzione equa

Con la sentenza n. 27711/2023 la Corte di Cassazione si pronuncia in tema di equa retribuzione.

Nello specifico, i Giudici affermano che – ai fini della individuazione della retribuzione equa e sufficiente prevista dall’articolo 36 della Costituzione – si deve, in prima istanza, verificare la stessa sulla base delle determinazioni previste dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali più rappresentative.

Nel caso in cui questo non fosse sufficiente, il Giudice deve valutare non solo i trattamenti previsti da altri contratti collettivi di settori affini, ma anche gli indicatori economici e statistici utilizzati per misurare la soglia di povertà quali, a titolo esemplificativo, l’indice ISTAT, i dati Uniemens per il calcolo del salario medio, il valore della NASPI, i trattamenti di integrazione salariale in presenza di sospensione dell’attività.

Ministero del lavoro: le prime indicazioni sul Decreto 48/2023

La Circolare n. 9/2023 pubblicata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali fornisce le indicazioni necessarie per un’uniforme applicazione di quanto previsto dal Decreto Legislativo n. 48/2023 (convertito in Legge 85/2023) in materia di contratto a tempo determinato.

Rispetto alla normativa previgente, restano invariati:

1) il limite massimo di durata del contratto a termine tra lo stesso lavoratore e datore di lavoro, che è fissato in  ventiquattro mesi fatte salve le diverse previsioni dei contratti collettivi e la possibilità di un’ulteriore stipula di un contratto a tempo determinato, della durata massima di dodici mesi, presso la sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro;

2) il numero massimo di proroghe consentite (quattro nell’arco temporale di ventiquattro mesi),

3) il regime delle interruzioni tra un contratto di lavoro e l’altro (c.d. stop and go).

Di seguito, riportiamo alcune delle variazioni apportate dal Decreto e analizzate dalla Circolare ministeriale.

Condizioni legittimanti l’apposizione del termine

Sono state del tutto soppresse le condizioni in precedenza riferite a:

  • Esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività;
  • Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.

Valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva nella individuazione dei casi che consentono di apporre al contratto di lavoro un termine superiore ai dodici mesi, ma in ogni caso non eccedente la durata massima di ventiquattro mesi, sono state introdotte le seguenti casistiche:

La nuova lettera a) si limita a riaffermare la prerogativa, già in precedenza riconosciuta alla contrattazione collettiva, di individuare tali casi,
purché ciò avvenga ad opera dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e dai contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali delle suddette associazioni, ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria;

La nuova lettera b) esplicita che, in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), le condizioni possano essere individuate dai contratti
collettivi applicati in azienda, fermo restando il rispetto delle previsioni di cui all’articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015 in ordine alla qualificazione dei soggetti stipulanti, in un’ottica di valorizzazione della contrattazione di prossimità.

La stessa lettera b) introduce, altresì, la possibilità che le parti del contratto individuale di lavoro – in assenza di specifiche previsioni contenute nei contratti collettivi – possano individuare esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva che giustificano l’apposizione di un termine al contratto di lavoro di durata superiore ai dodici mesi (ma ugualmente non superiore ai ventiquattro mesi).
Ai sensi di tale disposizione, si evidenzia che le parti individuali possono avvalersi solo temporaneamente di tale possibilità, entro la data del 30 aprile 2024 (da intendersi come riferita alla stipula), consentendo in tal modo alle Parti sociali di adeguare alla nuova disciplina i contratti collettivi sopra richiamati, le cui previsioni costituiscono fonte privilegiata in questa materia.

Proroghe e rinnovi

Il Decreto disciplina con maggiore uniformità il regime delle proroghe e dei rinnovi che, nei primi dodici mesi, possono adesso intervenire
liberamente senza specificare alcuna condizione, mentre viene confermato l’obbligo delle condizioni previste dall’articolo 19, comma 1, per eventuali periodi successivi ai dodici mesi.

Il comma 1-ter (aggiunto al testo originario in sede di conversione del decreto-legge) introduce una previsione che ha l’effetto di consentire ulteriori contratti di lavoro a termine privi di causale per  la durata massima di dodici mesi, indipendentemente da eventuali rapporti già stipulati tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore prima dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 48 del 2023.

Più in particolare, la disposizione prevede che, ai fini del raggiungimento del limite massimo di dodici mesi, si tiene conto unicamente dei contratti di lavoro stipulati a decorrere dal 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del decreto legge in esame.
Conseguentemente, eventuali rapporti di lavoro a termine intercorsi tra le medesime parti in forza di contratti stipulati prima del 5 maggio 2023 non concorrono al raggiungimento del termine di dodici mesi entro il quale viene consentito liberamente il ricorso al contratto di lavoro a termine.
Per effetto di tale previsione, a decorrere dal 5 maggio 2023 i datori di lavoro potranno liberamente fare ricorso al contratto di lavoro a termine per un ulteriore periodo (massimo) di dodici mesi, senza necessità di ricorrere alle specifiche condizioni dell’articolo 19, comma 1, indipendentemente da eventuali rapporti già intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore in forza di contratti stipulati prima del 5 maggio 2023, ferma restando la durata massima dei contratti a tempo determinato prevista dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

Somministrazione

Infine, il comma 1-quater (anch’esso aggiunto all’articolo 24 in sede di conversione del decreto-legge) interviene a modificare quanto previsto in materia di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, con l’obiettivo di superare alcune limitazioni per particolari categorie di lavoratori.
In primo luogo, viene adesso previsto che ai fini del rispetto del limite del 20 per cento, previsto dal primo periodo del comma 1, non rilevano i lavoratori somministrati assunti dall’agenzia di somministrazione con contratto di apprendistato.

Inoltre, viene esclusa espressamente l’applicabilità di limiti quantitativi per la somministrazione a tempo indeterminato di alcune categorie di lavoratori, tassativamente individuate, tra cui i soggetti disoccupati che fruiscono da almeno sei mesi di trattamenti di
disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dell’articolo 2, numeri 4 e 99, del Regolamento (UE) n. 651/2014, come individuati dal decreto ministeriale del 17 ottobre 2017.

Cassazione: trasformazione del rapporto a tempo parziale e licenziamento per gmo

Il contenuto dell’articolo 8 del D.Lgs. 81/2015 non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part-time ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere di prova posto a carico di parte datoriale, pur escludendo che il rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time possa costituire di per sé giustificato motivo di licenziamento.

Questo il contenuto della Sentenza della Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 12244/2023. Nello specifico, ai fini del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, occorre che sussistano e che siano dimostrate dal datore di lavoro effettive esigenze economiche ed organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto; l’avvenuta proposta al dipendente o ai dipendenti di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto dei medesimi; l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione dell’orario e il licenziamento.

Garante privacy: accesso ai dati gps da parte dei dipendenti

Costituisce un diritto dei lavoratori dipendenti richiedere – e ottenere – i dati sulla geolocalizzazione, utilizzati dal datore di lavoro per elaborare i rimborsi chilometrici e la retribuzione mensile oraria.

E’ quanto affermato dal Garante per la protezione dei dati personali nella Newsletter dell’11 settembre 2023.

Il Garante ha comminato una sanzione di 20mila euro a una società incaricata della lettura dei contatori di gas, luce e acqua, per non aver dato idoneo riscontro alle istanze di accesso ai dati di tre dipendenti.

Nello specifico, i lavoratori avevano chiesto alla ditta di conoscere le informazioni utilizzate per elaborare i rimborsi chilometrici e la retribuzione mensile oraria, nonché la procedura per stabilire il compenso dovuto, al fine di verificare la correttezza della propria busta paga.

I dati oggetto della richiesta erano quelli raccolti attraverso lo smartphone fornito dalla società sul quale era stato istallato un sistema di geolocalizzazione che permetteva agli operatori di individuare il tragitto da effettuare per raggiungere i contatori.

L’attività istruttoria del Garante ha fatto emergere che la società – in qualità di titolare del trattamento – non aveva fornito un riscontro idoneo a quanto richiesto dai reclamanti, limitandosi a indicare le modalità e gli scopi per i quali venivano trattati.

Tale condotta risulta illecita in base ai principi della normativa sulla privacy: dalla rilevazione del GPS, infatti, deriva indirettamente la geolocalizzazione dei dipendenti e, di conseguenza, un trattamento di dati personali, quantomeno nel momento della lettura dei contatori.

Il Garante ha, pertanto, ordinato alla società di fornire ai reclamanti i dati relativi alle specifiche rilevazioni/coordinate geografiche effettuate con il GPS dello smartphone e tutte le informazioni ricollegate al trattamento richieste.

In aggiunta, è stato precisato che la società, avrebbe – comunque – dovuto indicare almeno i motivi specifici per i quali non poteva soddisfare le istanze di accesso, rammentando il diritto dell’interessato di presentare reclamo al Garante o ricorso giurisdizionale.

Ministero del Lavoro: rivalutate le sanzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro

Il Decreto n. 111 del 20 settembre 2023 della Direzione Generale per la Salute e la Sicurezza nei luoghi di lavoro, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, contiene la rivalutazione dell’importo delle sanzioni del decreto legislativo n. 81/2008 (TU in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro).

Nello specifico, le ammende riferite alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro e le sanzioni amministrative pecuniarie previste dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nonché da atti aventi forza di legge, sono rivalutate, a decorrere dal 1° luglio 2023, nella misura del 15,9%.