Cassazione: il licenziamento di un dipendente che rifiuta il tempo pieno fa scattare un doppio onere probatorio

In caso di rifiuto del tempo pieno non viene meno la facoltà del recesso datoriale, ma il giustificato motivo oggettivo si arricchisce di un elemento ulteriore. Alla effettività delle esigenze aziendali alla base del licenziamento e alla indisponibilità di mansioni alternative cui adibire il lavoratore si aggiunge, infatti, l’onere di dimostrare l’impossibilità di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale; se entrambe le condizioni sono soddisfatte, il licenziamento è legittimo. E’ quanto affermato dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza 29337/2023.

Il caso in esame riguarda la riorganizzazione aziendale messa in atto da un’impresa per ottenere uno stabile incremento della clientela. Tale processo di riorganizzazione ha dato luogo all’esigenza di ricorrere a trasformare a tempo pieno il contratto di una dipendente impiegata a orario ridotto.

A fronte del rifiuto della lavoratrice di passare al tempo pieno, la società ha assunto un altro impiegato a tempo pieno e la dipendente a tempo parziale è stata licenziata dopo un periodo di formazione al neoassunto.

La dipendente ha impugnato il licenziamento, che – in sede di appello – è stato dichiarato nullo, basando la pronuncia sul presupposto che esso costituisse la reazione c.d. ritorsiva del datore al rifiuto di trasformare il rapporto a tempo pieno.

Di parere diverso la Cassazione, la quale sostiene che il compito del giudice è meramente quello di verificare che la sostituzione del dipendente a tempo parziale con uno a tempo pieno sia l’unica soluzione plausibile per soddisfare le nuove esigenze aziendali.

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