Corte D’Appello: utilizzabili le registrazioni realizzate nei locali aziendali

Le registrazioni delle telecamere presenti all’interno di locali aziendali possono essere usate dal datore di lavoro per contestare ad una dipendente le condotte poste in essere da quest’ultima in violazione delle procedure aziendali e penalmente rilevanti.

E’ quanto afferma la sentenze della Corte D’Appello di Venezia nella Sentenza n. 476/2021.

Nel caso di specie, dalle registrazioni si è rilevato che la cassiera di una casa da gioco si era appropriata degli incassi del locale. Il datore di lavoro ha proceduto a licenziare la lavoratrice per giusta causa.

Secondo i Giudici, nonostante gli impianti audiovisivi debbano essere «funzionali alle esigenze del gioco e di tutte le attività connesse, al fine di tutelare da eventuali contestazioni, di non sempre agevole soluzione, sia la clientela che gli impiegati della cassa da gioco», e le relative informazioni e registrazione dovrebbero essere utilizzate solo «a discolpa» di clientela e impiegati, rileva in maniera fondamentale la parte dell’accordo sindacale in cui viene legittimato delle informazioni anche per fatti «a carico» dei dipendenti che  fossero ritenuti «di particolare rilevanza o gravità».

Inoltre:

  • Era provato che la dipendente fosse pienamente informata dell’esistenza del sistema di videoregistrazione;
  • Dall’impianto probatorio risultava palese l’innaturalità di alcuni comportamenti messi in atto dalla dipendente, confermato anche dai colleghi;
  • Dall’esame di distinte di cassa, di estratti del sistema informativo aziendale e di mandati di pagamento erano emersi ammanchi e operazioni che alla lavoratrice avevano portato plusvalenze;
  • La lavoratrice non ha fornito spiegazioni alternative per giustificare i propri comportamenti ed atteggiamenti

In conseguenza di tutto ciò e delle mansioni di responsabilità svolte dalla lavoratrice (cassiera), il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore viene irrimediabilmente leso, al punto da far ritenere integrata la causale della giusta causa del licenziamento.

L’utilizzo indebito dei permessi ex L. 104/92 giustifica il licenziamento

Può essere licenziato per giusta causa il lavoratore che venga sorpreso a svolgere attività incompatibili e non direttamente correlate alla fruizione dei permessi disciplinati dalla Legge 104/92.

La Corte di Cassazione – Sezione Lavoro, con la Sentenza n. 17102/2021, conferma quanto espresso dal Giudice di primo grado, il quale ha ritenuto corretta la procedura di licenziamento per giusta causa del dipendente che viene sorpreso dall’agenzia investigativa nello svolgimento di attività non compatibili con l’assistenza alla madre disabile per la quale utilizzava i permessi previsti dalla Legge 104/92.

Tale comportamento danneggia in maniera non ripristinabile il vincolo fiduciario sotteso al rapporto tra dipendente e datore di lavoro giustificando, pertanto, il provvedimento espulsivo.

Quando la reperibilità è considerata orario di lavoro? Le pronunce della Corte di Giustizia Europea

Tramite due pronunce la Corte di Giustizia Europea stabilisce i criteri per individuare quando la reperibilità debba essere considerata orario di lavoro.

La prima sentenza riguardava il caso di un tecnico tra le cui mansioni figurava quella di assicurare il funzionamento di centri di trasmissione televisiva situati in zone montane e che doveva garantire 6 ore al giorno di reperibilità telefonica e l’obbligo di raggiungere il luogo dell’intervento entro un’ora, ma non quello di rimanere sul posto di lavoro. Il fatto di svolgere l’attività in una località montana, tuttavia, gli impediva di muoversi liberamente.

La seconda sentenza riguardava, invece, un pompiere che – oltre al consueto orario di lavoro – durante la reperibilità doveva essere contattabile e, in caso di necessità, doveva raggiungere i confini della città entro 20 minuti.

In tutti e due i casi i lavoratori sostenevano che – considerate le restrizioni imposte – i periodi di reperibilità dovessero essere considerati come orario di lavoro e retribuiti di conseguenza.

Tuttavia, in entrambi i casi la Corte ha ritenuto infondate le richieste dei lavoratori sostenendo il principio secondo cui per poter considerare la reperibilità come orario di lavoro deve verificarsi la condizione che il lavoratore sia obbligato a rimanere a disposizione del datore sul luogo di lavoro e che questo sia diverso dal suo domicilio.

Per operare tale qualificazione- ricordano i Giudici – è necessario prendere come parametri le specifiche condizioni e i vincoli cui è soggetto il lavoratore da una norma nazionale di legge, dalla contrattazione collettiva o dal datore di lavoro stesso.

Diversamente, non rilevano le difficoltà organizzative che derivano da elementi naturali o dalla libera scelta del lavoratore.

Inoltre, è necessario considerare anche la ragionevolezza del termine a disposizione per riprendere servizio, tenuto conto delle eventuali facilitazioni che vengono concesse al lavoratore.

Da ultimo, la Corte ricorda che, con riferimento ai periodi di guardia o prontezza, poiché gli stessi non ricadono sotto la direttiva 2003/88,  possono essere remunerati diversamente dalle ore di prestazione effettiva, anche quando vengano considerati come orario di lavoro.

Cassazione: illegittimo il licenziamento della lavoratrice madre

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 13861/2021 – ha confermato che non può essere ritenuto legittimo il licenziamento della lavoratrice madre durante il c.d. periodo protetto se questo viene intimato per cessazione dell’attività di un singolo reparto dell’azienda anziché dell’intera attività aziendale.

Ricordiamo che il periodo protetto, durante il quale vige il divieto di licenziamento, decorre dall’inizio della  gestazione fino al compimento del primo anno di vita del bambino.

I Giudici hanno fondato la loro pronuncia sulla tesi che non sia possibile dare un’interpretazione estensiva alla deroga vigente al divieto di licenziamento.

Il trasferimento del lavoratore come adempimento dell’obbligo di repêchage: il parere della Cassazione

L’obbligo di repêchage interessa il datore di lavoro che – prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo – è tenuto a prendere in considerazione tutte le ipotesi di ricollocazione del lavoratore all’interno dell’azienda.

Una modalità per adempiere a tale obbligo è individuata anche nel trasferimento del lavoratore presso un’altra unità produttiva aziendale. Tuttavia, perché l’operazione sia considerata genuina, il trasferimento deve essere disposto per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, come previsto dall’articolo 2103 del Codice Civile. Se lo spostamento avviene nell’ambito della medesima unità produttiva, allora non si qualifica come trasferimento.

Una recente pronuncia di Cassazione ha stabilito come illegittimo un licenziamento comminato senza aver adempiuto alle verifiche imposte dall’obbligo di repêchage. Nello specifico, il datore di lavoro si era limitato ad offrire al lavoratore una ricollocazione presso società estranee alla titolarità del rapporto di lavoro, ma appartenenti al medesimo gruppo.

Secondo i Giudici, gli obblighi in capo al datore di lavoro non si possono considerare come adempiuti. Il solo collegamento economico/funzionale tra imprese gestite facenti parte di un medesimo gruppo non consente di estendere automaticamente a tutte le società in questione gli obblighi inerenti i rapporti di lavoro. Perché ciò avvenga è necessaria l’esplicita individuazione di un unico centro di imputazione dei rapporto di lavoro che investa tutte le società del gruppo.

La Sentenza si uniforma ad una pronuncia di Cassazione più risalente, secondo cui, in caso di licenziamento, il datore di lavoro ha l’onere di allegazione e di prova circa l’esistenza del giustificato motivo oggettivo. Tra tali oneri ricade anche la dimostrazione dell’impossibilità del repêchage: il datore di lavoro deve dimostrare quali siano le basi che legittimano l’esercizio del potere di recesso. Diversamente, il licenziamento è da considerarsi illegittimo.

Garante Privacy: videosorveglianza e tutela dei dati personali

Il Garante Privacy torna ad esprimersi in tema di videosorveglianza con le Faq pubblicate il 5 dicembre scorso nell’apposita sezione del sito internet, fornendo chiarimenti sulla corretta gestione degli adempimenti connessi alla tutela della privacy, i quali vanno ad innestarsi su quelli già previsti dallo Statuto dei lavoratori.

Riassumendo brevemente, il sopra richiamato Statuto dei lavoratori (Legge 300/1970), all’articolo 4, prevede la possibilità – per il datore di lavoro – di installare impianti e strumenti audiovisivi che consentano anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori esclusivamente per esigenze:

  • Organizzative e produttive,
  • Inerenti la sicurezza sul lavoro,
  • Connesse alla tutela del patrimonio aziendale.

Per poter procedere in tal senso, tuttavia, è necessario che lo stesso datore di lavoro proceda preventivamente a sottoscrivere un accordo con le Rsa/Rsu oppure – in mancanza di tale accordo – ottenga l’autorizzazione preventiva da parte dell’Inl.

Le successive modifiche apportate alla normativa dal Jobs Act, diversificano gli adempimenti da porre in essere a seconda del tipo di strumento utilizzato.

Nello specifico, l’installazione e l’utilizzo di impianti audiovisivi e di altri sistemi di videosorveglianza sottostanno obbligatoriamente all’accordo sindacale o all’autorizzazione dell’Inl preventivi.

Diversamente, per l’utilizzo degli strumenti di lavoro e di registrazione di accessi e presenze non è necessario alcun accordo o autorizzazione (sul punto leggi anche Impianti GPS, chiarimenti ministeriali).

Per entrambi gli strumenti, tuttavia, il datore di lavoro è tenuto a predisporre adeguata documentazione informativa sulle modalità di utilizzo, dei controlli effettuati e del rispetto della normativa sulla tutela dei dati personali.

Proprio sul rispetto della normativa sulla privacy va ad innestarsi l’intervento del Garante – anche alla luce delle nuove disposizioni introdotte dal Regolamento Europeo 2016/67.

In primis, viene chiarito che l’installazione di impianti di videosorveglianza non è soggetta ad alcuna autorizzazione da parte del Garante. Come anticipato in precedenza, per rispettare la normativa in materia di tutela dei dati personali, l’attenzione va posta fondamentalmente sulla documentazione informativa predisposta.

Così, i locali e le zone sottoposte a sorveglianza devono essere appositamente segnalati e la cartellonistica deve essere apposta prima che il personale possa avere accesso a tali aree.

Altro tema caldo riguarda le registrazioni effettuate dal sistema, che devono essere conservate esclusivamente per il periodo utile alle finalità per cui vengono realizzate. E’ il datore di lavoro stesso il soggetto tenuto all’individuazione dei tempi di conservazione delle immagini, considerando il contesto e le finalità del trattamento, nonché il rischio di ledere i diritti e le libertà delle persone fisiche.

Secondo il Garante, il datore di lavoro è tenuto a seguire il principio di minimizzazione dei dati e di limitazione della conservazione, operando la cancellazione degli stessi al massimo entro pochi giorni dall’acquisizione, possibilmente tramite modalità automatizzate. Più il periodo di conservazione viene prolungato oltre quello previsto (in particolar modo se eccede le 72 ore), più si rende necessaria una relazione ragionata sugli scopi e le necessità di conservazione.

Un ulteriore parametro che può essere considerato nell’individuazione del limite massimo di conservazione delle immagini è certamente la dimensione aziendale. Oppure, la conservazione può essere modulata sulla base degli orari di apertura della struttura (magari intensificata nel fine settimana). In altri casi la giustificazione della conservazione prolungata risiede nella necessità di far fronte a specifiche richieste dell’autorità giudiziaria o della polizia giudiziaria.

Un importante chiarimento fornito è anche quello per cui, per gli impianti c.d. falsi non si deve adempiere alla normativa in materia di tutela dei dati personali. Gli stessi restano, però, soggetti agli accordi/autorizzazioni preventivi.

Leggi le Faq Videosorveglianza del Garante Privacy

Periodo di comporto: come si computa una malattia causata da condotta aziendale?

I lavoratori subordinati che si assentano per malattia dall’attività lavorativa hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo determinato dalla legge o dai contratti collettivi.

L’intervallo di tempo nel quale il lavoratore è assente da lavoro ma ha garanzia del mantenimento del posto viene chiamato “periodo di comporto”.

Il Tribunale di Busto Arsizio nella sentenza del 5 febbraio 2021 ha affermato che dal computo del periodo di comporto vanno esclusi quei periodi di malattia che sono stati causati da una condotta aziendale.

Tale trattamento si applica anche nel caso in cui, il giudice, ricolleghi la malattia del lavoratore ad una condotta del datore di lavoro ma questa non sia stata denunciata all’INAIL o al medico aziendale.

Se l’insussistenza del licenziamento è manifesta, la reintegra è obbligatoria

Il Tribunale di Ravenna, chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità di un licenziamento c. d. economico, ha ritenuto necessario sottoporre la questione al giudizio della Corte Costituzionale.

Il Giudice, infatti, non ravvisano motivazioni alla base della sola facoltà per il giudice rispetto alla reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato per giustificato motivo oggettivo, quando – per converso – se l’insussistenza riguarda un licenziamento per giusta causa è prevista la reintegra obbligatoria. Tale trattamento risulta irragionevolmente discriminatorio e ingiustificatamente differenziato per quanto riguarda le tutele dei lavoratori.

La Corte – confermando quanto espresso dal Tribunale di primo grado – stabilisce come obbligatoria la tutela reintegratoria a livello universale in tutti i casi in cui venga accertata in maniera manifesta l’insussistenza del provvedimento di licenziamento.

 

Smart-working emergenziale prorogato a fine anno

E’ contenuta nella conversione in Legge del DL 52/2021 la disposizione che proroga fino al 31 dicembre 2021 la procedura semplificata di comunicazione dello smart working.

Pertanto, le comunicazioni che interessano le prestazioni rese in smart working fino al 31/12/2021 potranno essere inviate tramite la c.d. procedura semplificata (con accesso tramite SPID), che prevede le seguenti agevolazioni:

  • Utilizzo dello smart working senza sottoscrizione dell’accordo individuale con i lavoratori;
  • Invio dei dati relativi allo smart working tramite il file xls messo a disposizione dal Ministero del lavoro;
  • Obblighi di informativa in materia di sicurezza sul lavoro assolvibili in via telematica tramite l’apposita documentazione resa disponibile dall’Inail.

Il termine per l’invio della  comunicazione è fissato nel giorno antecedente a quello di inizio della prestazione. La mancata comunicazione è sottoposta ad una sanzione amministrativa il cui importo può variare da un minimo di 100 euro ad un massimo di 500 euro.

Assegni al nucleo familiare per il periodo 01.07.2021 – 30.06.2022

L’Inps ha pubblicato il messaggio con cui comunica che è possibile – per i lavoratori dipendenti del settore privato – presentare le domande telematiche per gli assegni al nucleo familiare relative al periodo 1° luglio 2021 – 30 giugno 2022.

Gli importi autorizzati terranno conto degli aumenti stabiliti dal DL 79/2021.

La domanda per gli Anf può essere presentata direttamente dagli interessati utilizzando il sito internet dell’Inps (accedendo all’area riservata con i codici di identificazione personale) oppure tramite i patronati e altri intermediari.

Per quanto riguarda, invece, l’assegno unico sarà necessario attendere la piena operatività nel mese di luglio 2021.