A distanza di oltre 10 anni dall’inserimento nel panorama italiano del contratto di collaborazione a progetto, il legislatore odierno cerca di porre un argine al continuo uso distorto delle c.d. “collaborazioni”, abrogando gli articoli dedicati a tale tipologia contrattuale inseriti all’interno del D.Lgs. n. 276/2003.
La prima cosa da notare è come i legislatori – quello del 2003 e quello del 2015 – si siano mossi sulla scia dello stesso intento: limitare gli abusi. Ovviamente – se no non ci sarebbe stato il caso di due diverse riforme – se il fine resta lo stesso, i mezzi cambiano.
Nel 2003 la riforma Biagi cercava di dare contezza di quali fossero i reali criteri di determinazione di una collaborazione genuina, sulla stessa scia si sono innestati i vari aggiustamenti di tiro operati negli anni successivi. Con il D.Lgs. n. 81/2015, invece, il legislatore opta per eliminare tout court la normativa inserita nel 2003, lasciando, però, in vigore l’art. 409 c.p.c..
La tecnica legislativa utilizzata nel 2003, cercando di colmare la lacuna aperta dal codice di procedura civile, all’articolo sopra richiamato, cercava di dare crismi e criteri di valutazione in ordine alle modalità di espletamento della prestazione lavorativa e alla determinazione del compenso dovuto. Semplificando, potremmo arrivare a dire che il legislatore, consapevole che le collaborazione nascano e si diffondano nel sistema lavoristico italiano, attingendo peculiarità sia dal lavoro subordinato che dal lavoro autonomo, aveva cercato di dare paletti entro i quali muoversi per restare nella genuinità. Da qui nasceva l’esigenza di determinare un progetto (o programma o fase di esso). Ulteriormente, per cercare di delineare meglio le diversità, si era poi previsto che se da un lato “il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi”, per contro “Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e, in relazione a ciò nonché alla particolare natura della prestazione e del contratto che la regola, non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati”. È palese come il legislatore abbia “pescato” dalle tipologie contrattuali maggiormente strutturate per colmare le lacune di tale tipologia contrattuale.
Sicuramente questa incertezza normativa, seguita dall’incertezza giurisprudenziale e dai continui aggiustamenti normativi apportati in questi anni, ha mantenuto, nei fatti, aperta la partita, portando a continui abusi nell’utilizzo delle collaborazioni.
Il Governo Renzi, con l’intento di porvi rimedio, abroga la parte ad esse dedicata all’interno del D.Lgs. n. 276/2003 inserendo, all’articolo 2, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2015, una nuova previsione relativa alle collaborazioni: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Per espressa previsione, all’art. 52, comma 2, resta salvo quanto previsto dall’art. 409 cp.c.. Resta applicabile quanto previsto dalla vecchia normativa ai contratti in essere alla data di entrata in vigore del decreto in analisi.
L’unica novità inserita, quindi, dal Jobs Act sulle collaborazioni è la previsione di riqualificazione automatica nel caso in cui le prestazioni rese dai collaboratori evidenzino tratti specifici del lavoro subordinato.
Prima di entrare nel merito della dizione utilizzata dal legislatore in ordine alle “nuove” collaborazioni, cerchiamo di capire la ratio sottesa al nuovo testo in vigore dal 25 giugno 2015.
Come abbiamo detto sopra, il nuovo dettato normativo è un ritorno al passato, a prima della riforma Biagi. La chiave di lettura dei pochi spunti di riflessione delle nuove collaborazioni è la differenza tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultati. Le modalità di esecuzione della prestazione non devono essere organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro: il committente non deve entrare nel merito di come verrà svolta la prestazione, con che tempi ed in che luogo, deve solo avere il risultato atteso e determinato in contratto. Questa “nuova” collaborazione, tralasciando tutte le sfumature previste nella previgente normativa in ordine a progetto, determinazione del compenso, modalità di erogazione della prestazione, prende le distanze in modo netto dal lavoro subordinato, ex art. 2094 c.c., puntando in modo evidente all’art. 2222 c.c.. Il lavoratore autonomo, infatti, “si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”. Per una più efficace determinazione circa i criteri di determinazione di tempi e luoghi di lavoro sicuramente verrà in aiuto giurisprudenza consolidata sulla riqualificazione del rapporto di lavoro.
Lascia, invece, perplessi la dizione utilizzata dal legislatore quando prevede che le collaborazioni che si concretino in prestazioni personali e continuative siano sinonimo di subordinazione. Infatti, se il legislatore ha optato per salvare l’art. 409 c.p.c. il quale prevede espressamente che le collaborazioni siano personali e continuative, non si capisce quale sia l’intento dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015. L’errore – grossolano – del legislatore è stato quello di porre l’accento sulla personalità e continuatività della prestazione, quasi volessero sottolineare che tali tipologie di prestazioni siano a basso valore aggiunto e/o ripetitive e, pertanto, denotino l’assenza di autonomia gestionale. Che qualifica una prestazione quale subordinata – o, per converso, autonoma – non è l’oggetto della stessa ma le modalità di esecuzione e svolgimento.
Cosa succede, quindi, dal 25 giugno 2015? Non esistendo più le previsioni della riforma Biagi, non esiste più specifica normativa per collaborazioni a progetto, mini-co.co.co., soggetti che percepiscono pensione di vecchiaia (ad eccezione di quelli in essere). Tutte le collaborazione, in generale, ritornano nell’alveo dell’art. 409 c.p.c. e soggiacciono a quanto previsto dal comma 1, dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015. Le uniche eccezioni per le quali non si applicano i crismi del comma 1 sono le seguenti:
- le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
- le collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
- le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
- le collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
Restano, quindi, in vita le collaborazioni. Per un certo verso, se genuine, con alcune novità di non poco conto: ad esempio il compenso viene, ora, svincolato dai minimi previsti dai CCNL per mansioni equiparabili, non è più prevista una durata determinata o determinabile, non dovrà più essere determinato il progetto alla base della stipula dello stesso. I contratti vengono quindi liberati da lacci e lacciuoli, la qualificazione del rapporto verterà sulle modalità di espletamento dell’attività nel concreto, andrà valutato se esiste eterodirezione o solamente coordinamento utile al raggiungimento degli obiettivi comuni, se il committente punterà a raggiungere un risultato atteso e determinato.
Cogliendo due passaggi della circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali n. 1/2004, riassumiamo quanto espresso sopra:
- “Le collaborazioni coordinate e continuative [omissis] restano caratterizzate dall’elemento qualificatorio essenziale, rappresentato dall’autonomia del collaboratore (nello svolgimento della attività lavorativa dedotta nel contratto [omissis]), dalla necessaria coordinazione con il committente, e dall’irrilevanza del tempo impiegato per l’esecuzione della prestazione”;
- “Il collaboratore deve gestire il progetto in funzione del risultato, che assume rilevanza giuridica indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”.