Dimissioni volontarie del lavoratore

A partire dal 5 marzo entra in vigore l’obbligo, per i dipendenti che vogliono rassegnare le proprie dimissioni, di seguire l’iter ministeriale. Quindi non basteranno più le dimissioni rassegnate su un foglio di carta bianco ma il lavoratore dovrà attivarsi per adempiere ad un obbligo molto più complesso: dovrà presentarsi presso i Centri per l’impiego, le Direzioni provinciali del Lavoro, le Direzioni regionali del Lavoro o i Comuni (in seguito ci sarà anche un protocollo d’intesa tra il Ministero e i sindacati per svolgere la stessa funzione) e compilare il modello di dimissioni. I dubbi sorgono già sulla compilazione dello stesso, basti pensare ad alcune delle informazioni richieste: contratto collettivo applicato e mansioni. Soprattutto per quanto riguarda le mansioni bisogna notare che non sono quelle conosciute da tutti noi ma bensì quelle rilasciate dall’Istat (un plico di 108 pagine scritte fittissime e contenenti mansioni a volte quasi sconosciute. Vi consiglio di provare ad assumere un impiegato d’ordine o un operaio comune per scoprire che non esiste!!!). Una volta compilato il modulo, lo stesso verrà inviato in telematico al Ministero che rilascerà immediatamente una ricevuta di invio. Con la stessa il lavoratore si recherà dal datore di lavoro per rassegnare le dimissioni. Si precisa che a decorrere dal 5 marzo non sarà più possibile accettare le dimissioni se non sul modello ministeriale pena la nullità.

Questa norma, che è nata per tutelare maggiormente i lavoratori dalla pratica molto diffusa (secondo il Ministero) delle “dimissioni in bianco”, va ad irrigidire sicuramente l’iter procedurale, a creare rallentamenti negli Uffici preposti a erogare tale servizio e dimentica inoltre completamente che la realtà è fatta anche di persone che un bel giorno non si presentano a lavorare e non rispondono nemmeno più al cellulare. Secondo qualche prima interpretazione in questo caso l’azienda si deve attivare per contestare l’assenza ingiustificata e, se del caso, arrivare a licenziare il lavoratore. Questa norma va inoltre a stravolgere e limitare anni di contrattazione collettiva: non saranno più applicabili le clausole contrattuali per le quali i lavoratori che non si presentano al lavoro sono da considerarsi dimissionari. Si sottolinea come procedere con un licenziamento porti comunque l’azienda ad esporsi di più: basti pensare a tutte le impugnazioni che verranno mosse verso questi licenziamenti per assenze.

Un’ultima osservazione si può muovere sicuramente sui soggetti a cui è indirizzata questa norma: infatti non si limita ai lavoratori dipendenti ma va applicata a tutti i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, a progetto e di associazione in partecipazione. Anche se è chiaro l’obiettivo ultimo della norma appare sbagliato l’approccio: non si può parlare di dimissioni di un lavoratore che subordinato non è. Nel voler tutelare tutti quei lavoratori che si pensa (a torto o a ragione) vengano sfruttati attraverso l’utilizzo non corretto di contratti di collaborazione o associazione, il legislatore si dimentica che in questo caso ci troviamo di fronte a lavoratori autonomi, che recedono dal contratto di lavoro para-subordinato o di associazione e non danno invece le dimissioni in un ambito di lavoro subordinato. Anche se è vero che in Italia si assiste ad un abuso di tutte quelle forme di lavoro che ruotano intorno al lavoro subordinato, non può il legislatore partire dal presupposto che tutti i rapporti di lavoro, siano essi di collaborazione o di associazione in partecipazione, celino un rapporto di lavoro subordinato e quindi meritevoli di una tutela maggiore, in quanto parte debole del contratto.

Saverio Nicco

 

maggiori informazioni su: Ministero del lavoro

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