Corte Costituzionale: nell’impresa familiare anche il convivente

Secondo la Sentenza n. 148/2024 della Corte Costituzionale è costituzionalmente illegittimo il comma dell’articolo 230-bis del Codice civile nella parte in cui, disciplinando l’impresa familiare, non prevede, alla stessa stregua del familiare, anche il convivente di fatto, diversamente da quanto avviene (per effetto della legge Cirinnà, 76/2016) con il componente dell’unione civile.

In conseguenza di ciò, risulta illegittimo anche l’articolo 230-ter del Codice civile, che attribuisce al convivente more uxorio una tutela ingiustificatamente discriminata rispetto a quella riconosciuta ai familiari e al componente dell’unione civile.

L’articolo 230-bis disciplina l’impresa familiare riconoscendo al familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa una serie significativa di diritti. A questi fini, per familiari si intendevano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.

Con l’entrata in vigore della legge Cirinnà sulle unioni civili, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, nei regolamenti, negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

Per il convivente di fatto – inteso quale parte della coppia di maggiorenni uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale – la legge Cirinnà ha riconosciuto, attraverso l’introduzione dell’articolo 230-ter del Codice civile, una tutela più limitata.

Sia l’Inps (Circolare n. 66/2017) che l’Ispettorato del Lavoro (Parere Inl 879/2023) hanno affermato che, se il componente dell’unione civile può essere considerato come «familiare» ai fini dell’articolo 230-bis, così non accade nei confronti del convivente more uxorio, il quale, sebbene presti analoga attività lavorativa in modo continuativo presso l’impresa del convivente, non può essere inquadrato come collaboratore familiare.

Per i Giudici di cassazione, il trattamento differenziato è irragionevole e non può essere superato da una lettura estensiva delle disposizioni vigenti. Dello stesso parere anche la Corte costituzionale che nella pronuncia osserva che, seppur rimangano nel nostro ordinamento alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, i diritti fondamentali devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni. E tale è il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione nel contesto di un’impresa familiare, il quale impone uguale tutela tra coniuge, componente dell’unione civile e convivente di fatto.